La fragilità umana è la vera forza delle leadership digitali

La fragilità umana è la vera forza delle leadership digitali

A chiusura di questi primi dodici mesi a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni ha dovuto affrontare due diversi momenti di crisi che potremmo definire “extra-politica” affidandosi alla comunicazione come primo e principale strumento di contenimento dei possibili effetti negativi.

Tre settimane intense iniziate con la separazione comunicata a mezzo social da Andrea Giambruno, compagno e padre della figlia, e conclusasi con la pubblicazione dello scherzo telefonico del duo comico russo Vovan e Lexus. In particolare, in questo secondo caso, l’accusa che le è stata rivolta è quella di aver logorato la credibilità delle istituzioni repubblicane e dell’Italia nel contesto internazionale e, al contempo, di aver svelato anche la fragilità della sua leadership. 

Sono questi i due capi d’imputazione che diverse testate giornalistiche e leader delle opposizioni si sono affrettati a notificare a Giorgia Meloni, al pari di una sentenza inappellabile. Così come a costoro si sono accodati alcuni influencer sempre attenti nei loro post a fustigare i comportamenti dei politici non tanto e non solo per marcare una distanza valoriale quanto per trarne una quota significativa di audience. Ciò perché la politica per quanto odiata e repulsiva è ancora un tema grandemente polarizzante.

Così, a margine delle due vicende e delle posizioni espresse man mano, vale la pena provare a dare qualche risposta meno strumentale, partendo da alcune considerazioni sui possibili danni subiti dalla percezione reputazionale del Presidente del Consiglio. 

La leadership della Meloni, così come di tanti politici contemporanei, si è definitivamente affermata e consolidata grazie alle piattaforme social e su queste ha trovato una sua narrazione riconoscibile, generalmente condivisibile e trasversalmente apprezzabile.

Come tale, ogni leadership social è per sua stessa natura orizzontale e non gerarchica, vive e prospera fino a quando ciascun follower sente di esserne autenticamente parte ed è naturalmente portato a empatizzare con le esperienze personali o pubbliche condivise dal proprio leader. In modo particolare quando queste esperienze condivise hanno una fortissima carica emotiva o morale.

Prima nel caso Giambruno e poi in quello della trappola telefonica, in cui caduta per un errore non suo, la platea digitale dei follower, precisando una volta e per tutte che che siamo tutti follower a prescindere dall’aver scelto di mettere il like a questo o quell’ account perché immersi fino al collo nella dimensione onlife, si è schierata senza riserve dalla parte della Meloni. Perché, come da decenni ci ripetono le ricerche sociali e psicologiche la sola osservazione dei movimenti e degli eventi altrui suscita in noi lo stesso stato d’animo che è alla base del movimento e dell’evento osservato. Si tratta di empatia come partecipazione o imitazione interiore.

Quando siamo testimoni di un evento i nostri neuroni-specchio ci fanno ri-vivere azioni, sensazioni ed emozioni di altri individui attivando le medesime aree celebrali di norma coinvolte nello svolgimento in prima persona delle stesse azioni e nella percezione delle medesime sensazioni ed emozioni.

Un processo che la dimensione digitale ha finito per rendere ancora più profondo, autentico e partecipato, tanto da consentirci di affermare che la maggior parte dei follower si sono immedesimati nello stato d’animo del loro leader, hanno proiettato loro stessi nei suoi panni, arrivando anche a immaginarsi nella stessa esperienza a ruoli invertiti. Tutto ciò conseguentemente, ha finito per blindare senza intaccarla di un nulla anche la percezione di credibilità della leadership, personale e istituzionale. In buona sostanza, a Meloni non è servito più di tanto ricorrere a una comunicazione tanto sincera quanto immediata, come nel caso dell’ex compagno, per tamponare possibili falle che potevano aprirsi nel muro della credibilità, proprio perché a montare la guardia c’erano gli eserciti dei follower.

Se invece ci spostiamo sul secondo terreno delle accuse rivolte alla Meloni, quello di un possibile danno di immagine patito dall’Italia nei contesti internazionali, anche qui è opportuno fare qualche breve riflessione ampliando i confini dell’osservazione e dando un giusto peso agli eventi. Negli ultimi anni abbiamo assistito a una radicale trasformazione delle etichette alle quali chi riveste ruoli istituzionali di primi piano è chiamato a conformarsi, non soltanto in Italia, ma in tutte le democrazie occidentali. 

Questa mutazione ha progressivamente messo al centro della scena pubblica la dimensione umana, con tutto il suo carico di fragilità e fallibilità e relegando ai margini tutto ciò che era un ossequio al protocollo e ai cerimoniali ufficiali. Un trasloco che non è stato visto, né interpretato come il segnale di un indebolimento della reputazione istituzionale dei leader. Anzi, al contrario, ogni qualvolta i leader si sono denudati dalla corazza delle etichette, facendo emergere la loro dimensione di ordinarietà, è cresciuta anche la loro forza reputazionale.

Di esempi se ne possono fare davvero tanti, in Italia possiamo citare Silvio Berlusconi, Matteo Renzi o più recentemente Giuseppe Conte, leader che hanno a modo loro incarnato questo particolare fenomeno che esalta la disintermediazione connessa ai ruoli.

Altrettanto, se valichiamo le Alpi, l’elenco dei capi di Stato e di governo che non nascondono più al pubblico e ai follower la loro dimensione umana è alquanto lungo: da Justin Trudeau, primo ministro del Canada, a Sanna Marin, ex premier della Finlandia, senza dimenticarci di Volodymyr Zelensky in Ucraina o di Donald Trump negli Stati Uniti, passando ancora per Boris Johnson, ex primo ministro di Sua Maestra, al presidente francese Emmanuel Macron. Sono tutti leader che in diversa misura hanno saputo utilizzare e sfruttare ai fini narrativi e reputazionale la dimensione della fragilità umana.

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