Mercato del lavoro e formazione alla prova dell’intelligenza artificiale 

Mercato del lavoro e formazione alla prova dell’intelligenza artificiale 

In un presente sempre più accelerato dai ritmi incalzanti della comunicazione, sentiamo spesso proclamare rivoluzioni tecnologiche che però non reggono alla prova del tempo. 

Non sembra essere questo il caso delle nuove forme di intelligenza artificiale che si stanno insinuando nella nostra quotidianità e promettono di occupare progressivamente maggiore spazio. Alleggerendo i compiti dell’intelligenza umana, ma minacciandone anche il primato, nel medio-lungo periodo. 

Se guardiamo, in particolare, al mondo del lavoro, il costante sviluppo dei modelli di IA pone numerosi interrogativi che, se più facilmente indulgono nei rischi, non possono tacere le enormi opportunità all’orizzonte. 

Per dirla con le parole di un grande intellettuale come Yuval Noha Harari, «il mercato del lavoro del 2050 potrebbe essere caratterizzato da una cooperazione umani-IA, anziché da una situazione competitiva.» 

È giusto quindi approcciare il tema nella sua effettiva complessità, ma bisogna liberarsi dal pregiudizio del catastrofismo, perché le tecnologie sono strumenti che abilitano, innanzitutto, alla creazione di nuove potenzialità umane. 

Una voce autorevole, come quella della Direttrice generale del Fondo Monetario Internazionale, Kristalina Georgieva, ha recentemente affermato che l’intelligenza artificiale avrà un impatto sul 60% dei posti di lavoro nelle economie avanzate. 

Da economia avanzata di emergente vitalità sta rispondendo il nostro Paese, protagonista sulla materia con la valorizzazione della Presidenza del G7, che culminerà nel vertice di Borgo Egnazia, e con la promozione di una “Strategia italiana per l’intelligenza artificiale” in grado di mobilitare risorse per miliardi di euro.

E anche sul piano europeo, rappresenta certamente un forte segnale l’approvazione da parte del Parlamento Ue dell’ AI act, la prima normativa complessa sull’intelligenza artificiale al mondo. L’Europa si dimostra una volta di più pioniera nella regolazione, auspicando però che possa essere anche capofila dell’innovazione in termini operativi e gestionali. Parallelamente, si assiste a un impegno strutturale nel settore privato, perché avvalersi dell’intelligenza artificiale vuol dire ripensare, bene e velocemente, i modelli produttivi e i processi organizzativi.  

In alcune primarie realtà d’impresa questo percorso evolutivo è stato già adeguatamente intrapreso, in tante altre realtà, soprattutto di piccole e medie dimensioni, emergono criticità significative.

Dal nostro osservatorio, riteniamo quindi che il sistema Paese, nel suo complesso, debba favorire la creazione di competenze manageriali innovative, perché al mercato servono manager che siano capaci di guidare le aziende verso il traguardo della trasformazione digitale.

Investire nella formazione e nella riqualificazione delle competenze, attraverso step di upskilling e reskilling della forza lavoro, è l’unica via per consentire alle nostre imprese di competere anche sul piano internazionale, in un mondo che parla sempre più il linguaggio dell’analisi dei dati, dello sviluppo dei software, della robotica avanzata. 

Ci sono poi gli aspetti, di non secondaria importanza, legati alla cybersecurity, alla luce della crescita esponenziale dei cyberattacchi nei confronti dei patrimoni immateriali del settore pubblico e di quello privato. Le cronache riportano continuamente notizie di intrusioni nelle banche dati o di assalti che determinano l’interruzione di servizi erogati da giganti del Web.

Pertanto, come Federmanager siamo in prima linea per sostenere l’importanza della formazione in ambito tecnologico e digitale, nelle sue molteplici declinazioni. E da anni, grazie al nostro percorso BeManager, certifichiamo le competenze degli innovation manager, che noi riteniamo possano essere gli “agenti del cambiamento” di cui le imprese hanno bisogno.

Nello specifico, il nostro ampio impegno formativo e informativo non riguarda solo le hard skill, di carattere più squisitamente tecnico, ma abbraccia anche le cosiddette soft skill trasversali che sono oggi sempre più ambite. Mi riferisco ad abilità e attitudini come il problem solving, la creatività, il pensiero laterale e l’intelligenza emotiva, solo per fare alcuni esempi. 

Il World Economic Forum ci dice che, nei prossimi anni il 44% dei lavoratori, nel mondo, dovrà cambiare le sue competenze. E per altro verso, dalle nostre rilevazioni emerge un mismatching allarmante, che si manifesta anche nel settore manageriale. Secondo i nostri dati, infatti, nel 2023 il 66,8% delle imprese ha avuto difficoltà di reperimento di figure dirigenziali. 

È l’intera platea lavorativa italiana quindi a dover fare i conti con il progresso e chi non aggiorna il proprio bagaglio di conoscenze, è destinato a essere tagliato irrimediabilmente fuori. 

Alla sfida dell’intelligenza artificiale sono inoltre connessi anche temi di natura etica, se pensiamo al rischio che il suo dannoso utilizzo può determinare in termini di discriminazioni sociali, politiche, etniche, religiose e di genere. 

Su questo ultimo punto, in particolare, noi crediamo che per favorire una cultura digitale equa e inclusiva, sia necessario innanzitutto irrobustire la governance femminile, e non solo nei settori tech. Oggi in Italia, le manager sono appena il 28% delle figure apicali in azienda e solo poco più di 1 su 10 tra gli Ad è donna. 

Numeri che danno il senso di una discriminazione di fatto, specialmente nei livelli decisionali. È il momento di dire basta e di intervenire con urgenza. 

Ben vengano dunque le misure innovative introdotte in questi anni, come la certificazione della parità di genere su cui la nostra Federazione è anche direttamente impegnata, ma serve di più. È necessaria un’alleanza strutturale tra sistema produttivo, organizzazioni di rappresentanza e istituzioni per rompere il soffitto di cristallo e costruire le basi di un’Italia che metta il merito al centro del proprio progetto di futuro. 

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