Presidenzialismo, la vera rivoluzione è il ritorno alla preferenza 

Presidenzialismo, la vera rivoluzione è il ritorno alla preferenza 

La proposta di Presidenzialismo nel centro destra italiano solleva interrogativi sulla rappresentatività della classe politica. La distanza tra Parlamento e territori, accentuata dalla legge elettorale, richiede riflessioni. Dal 1992, la partitocrazia declina, ma il sistema non si adegua. Le correnti influenzano le candidature, minando la rappresentanza. La preferenza elettorale è essenziale per una politica più efficace e incisiva.

Il governo guidato dal Presidente Giorgia Meloni ha lanciato la proposta di Presidenzialismo del centro destra. Sarebbe opportuno, prima di discutere di riforma costituzionale, riflettere sull’effettiva rappresentatività della classe politica che si accinge a promuovere questa nuova “rivoluzione”.

È evidente lo scollamento che c’è tra la rappresentanza parlamentare e i territori a causa di una legge elettorale che non invoglia gli eletti ad avere un rapporto saldo con il cittadino elettore e il territorio.

Come sappiamo il sistema politico italiano è entrato in crisi a partire dal 1992. Quella crisi, che fu narrata come la fine della partitocrazia, diede vita a quella Seconda Repubblica, che oggi non molti commentatori o scienziati della politica continuano a definirla così. 

Il referendum del 1993 eliminò il sistema proporzionale in favore di un sistema maggioritario-bipolare, era fondato su coalizioni pre-elettorali che sarebbero state capaci di garantire agli elettori la possibilità di decidere direttamente – con il voto – il governo e la maggioranza (e di fatto anche il presidente del Consiglio), sottraendo dunque al parlamento il suo ruolo di scelta. Ma di fatto ciò non è avvenuto. Il sistema elettorale doveva, quindi, attribuire a chi otteneva più voti, una maggioranza tale da garantirgli di governare fino alla fine della legislatura, con la squadra e con il programma presentati in campagna elettorale.

 Si sarebbero in questo modo cancellati gli antichi problemi dell’instabilità dei governi e della frammentazione politica. Ma come sappiamo non è andata così. E poco è cambiato fra mattarellum al rosatellum o altro.

La preferenza, con il suo potenziale di rimettere al centro la scelta dei cittadini, è essenziale per una classe politica più efficace e rappresentativa.

Le candidature sono legate a logiche ben collaudate e ripetute nel tempo. Il gioco delle correnti riesce a prevalere rispetto a scelte che dovrebbero essere basate sulla competenza e sulla capacità rappresentativa. Nella pratica gli eletti sono nominati dalle segreterie dei partiti, mentre il ritorno alla preferenza potrebbe rimettere al centro della scelta dei cittadini una Politica più efficace, più integra. Questo comporta che l’evoluzione della selezione della classe dirigente è ridotta ad una logica di fedeltà più che di capacità e rappresentanza diretta. Troppi sono stati i membri del parlamento che sono stati paracadutati nelle liste elettorali: il sistema va reso di nuovo aperto ad una logica strategica della rappresentanza, prima di tutto se si vuole far crescere le percentuali di partecipazione democratica. Dopo il populismo, l’uno vale uno – con tutte le conseguenze che abbiamo visto – lo scollamento elettore ed eletto, è certificato da due elementi: il crollo dell’affluenza alle urne (ormai meno della metà degli italiani decidono il destino del paese), e la non conoscenza dei nomi dei loro rappresentanti parlamentari. Va da sé che un certo tipo di rivoluzione, ha bisogno di una classe politica che sia la reale espressione del paese. Senza la reintroduzione della preferenza non ci sarà mai una classe dirigente capace di guidare il paese. Oggi la stabilità è per il momento assicurata, ma il costo opportunità di questa maggioranza da quanti italiani è stata eletta? 

La Politica deve rimettere al centro dell’agenda, prima di una riforma costituzionale, una riforma della legge elettorale. Ma appare chiaro che la preferenza non è al centro dell’attenzione. I partiti ormai vivono una fase di decadimento, senza finanziamento nessuno ha la forza di formare personale politico capace di fare attività quotidiana di radicamento e organizzazione politica: altro grave errore aver eliminato il finanziamento alla politica.

Ci vuole coraggio per cambiare passo, non bastano annunci, rincorsa al titolo in prima pagina o al selfie più accattivante, occorre altro. Se la politica non torna ad essere protagonista della visione e della programmazione futura, le migliori menti si dedicheranno alle attività autonome ponendo la parola fine all’impegno diretto. 

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *